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Il Livellamento dell'Eccezionale

La dinamica del confronto

Viviamo in un'epoca che celebra l'eccezionalità come valore intrinseco, ma al tempo stesso la consuma, la rende norma, la svuota.
Questo paradosso è il cuore di una frustrazione esistenziale sempre più diffusa tra chi cerca di "diventare qualcuno" in un mondo in cui "qualcuno" è chiunque.

Il talento, una volta risorsa rara e generativa, oggi è inflazionato, annichilito dal confronto continuo e dal miraggio dell'ottimizzazione permanente.

Vuoi o non vuoi, dipendi dagli altri: meglio 10 in mezzo a 8 che 80 in mezzo a 100?

C'è una distinzione sottile, quasi impercettibile, che sfugge a molti: l'eccezionalità assoluta e quella percepita. La prima riguarda ciò che sei, il livello intrinseco delle tue capacità. La seconda riguarda il contesto, lo specchio sociale in cui ti rifletti. Una può esistere senza l'altra, ma se manca la percezione, l'assoluto perde forma. È un'ambiguità che nessuno scioglie del tutto, e forse non va sciolta: è proprio lì che si annida il tormento.

La percezione del proprio valore è funzione della distanza dal gruppo di riferimento.
È la dinamica descritta da Leon Festinger (1954): valutiamo noi stessi non in assoluto, ma per confronto sociale. L'autostima non è un parametro statico, ma una variabile dipendente da coordinate relazionali: ci sentiamo migliori non perché siamo oggettivamente bravi (anche perché non significa nulla), ma perché siamo più bravi degli altri. Che piaccia o meno è irrilevante: è così che funzioniamo.

Come in un clustering (per fare una ref al ML), la nostra autostima deriva dalla distanza dal centroide sociale che abitiamo. Un 10 in mezzo a 8 sperimenta un senso di superiorità. Non solo si sente superiore: comincia a identificarsi con quella superiorità, ad ancorare il proprio sé a quello scarto, è il Rocket Effect. D'altro canto, un 80 in mezzo a 100, pur essendo oggettivamente superiore al 10 di prima, si sente inferiore. E inizia a dubitare di sé, perché il benchmark è dettato dal contesto.

Non siamo solo dipendenti dagli altri. Siamo co-dipendenti.
Poiché ognuno si confronta continuamente, anche il mio valore influenza quello degli altri, e quello degli altri retroagisce su di me. È un sistema circolare, un reticolo in cui ogni nodo rinforza o indebolisce gli altri. Le nostre identità si propagano a vicenda, aggiornandosi continuamente. È per questo che “sei la media delle cinque persone che frequenti di più” non è una frase da guru: è una verità strutturale.
Se cambi il contesto, cambia l'autopercezione. Se alzi la compagnia, ti alzi, sì, ma se ti sovradimensioni… ti frantumi, e questo è il problema.

E allora forse viene da pensare che la reale percezione di te si manifesta solo in un conteso composto da un unico elemento: te stesso.
Essenzialmente: chi sei quando sei solo?

La solitudine sembra un luogo puro, ma è un prodotto sociale interiorizzato.
Quando resti senza nessuno attorno, continui a muoverti su coordinate che non hai inventato tu: i confronti passati, i ricordi, le voci degli altri sedimentate dentro. Anche il tuo “non confrontarti” è solo l'eco di un confronto già avvenuto. Così la solitudine non è mai nuda: è sempre abitata da fantasmi sociali.

Il problema non solo è il confronto, ma anche la finzione che, in qualche modo, si possa ignorarlo.

“Non paragonarti agli altri” è una frase comoda quanto illusoria. È come dire “non pensare al tempo che scorre” o “smetti di respirare ansia”. Il confronto è pre-cognitivo. Si attiva prima del pensiero. Prima della volontà. Prima dell'etica.

Non si elimina. Si può solo osservare, riconoscere, usare. Trasformarlo da predatore a strumento, restando “osservatori” delle nostre stesse emozioni, e della sensazione di confronto.

Forse non si tratta di evitarlo, ma di riconoscerne la meccanica e decidere se vogliamo esserne soggetti passivi o architetti consapevoli. Saperlo è potere. Ma resta la ferita: l'io è una funzione relazionale. Non si scappa. Pazienza…

Ci formiamo attraverso i filtri che la nostra mente applica al mondo attorno a noi. Ma quel mondo… è costruito da altri umani. Noi compresi.

E chi si proclama libero dalla società non è un illuminato. È solo un prodotto che ha dimenticato il suo packaging. Un illuso. Uno che respira l'aria e nega l'atmosfera.

Il Livellamento dell'Eccezionale

Torniamo a noi: il talento perde di significato quando diventa frequente. In un ambiente ordinario, un elemento della coda destra della distribuzione (una persona brillante, creativa, veloce) emerge. In un ambiente composto solo da coda destra, non emerge nessuno: la curva si ricentra. L'eccezione si dissolve nella nuova media.
E questo è devastante non solo sul piano sociale, ma psicologico.

Le comunità d'élite, per quanto ambite, normalizzano l'eccezionalità. Ci vai per brillare, e finisci per sentirti opaco. La gratificazione nasce dallo scarto, dalla differenza.
Se la tua differenza è la regola, non è più differenza.
L'errore è credere che essere tra i migliori renda felici.
La verità è che la felicità non sta nell'assoluto, ma nel contrasto.

Ed è qui che si manifesta l'effetto club esclusivo. Entrare in un'élite non significa solo confrontarsi con un livello medio più alto: significa esporsi a un paradosso sociale. Da un lato la normalizzazione del talento, dall'altro la pressione costante a dimostrarlo. È il terreno fertile per il burnout, per la sindrome dell'impostore, e per l'ansia da “torneo permanente”. Lo chiamano “winner-take-all market”: giochi dove i premi vanno a pochi, e la maggioranza resta frustrata, nonostante la “maggioranza” è comunque composta da élite. Più ti avvicini al vertice, più il vertice si sposta.

E allora che si fa? Si resta dove si è, o ci si intromette in un contesto top-tier con i rischi del caso? E che ne so.

Quando l'Asticella si muove più in fretta di te

C'è un tipo particolare di stanchezza che nasce non dalla fatica, ma dal movimento continuo del traguardo. La carota davanti all'asino. Questo è il destino del talento nel mondo moderno: migliorarti, adattarti, ottimizzarti – eppure sentirti sempre inadeguato.

Perché? Perché l'asticella si muove. Il benchmark non è fisso: è dinamico, adattivo, implacabile. Ogni volta che cresci, il mondo si ricalibra. Ogni volta che vinci, cambi gioco.

La psicologia lo chiama hedonic treadmill (Brickman & Campbell, 1971): anche le conquiste più straordinarie si normalizzano, riportandoci a un livello di soddisfazione di base. E noi inseguiamo. Non falliamo mai davvero, ma non vinciamo mai davvero.

Ecco la verità più dura: pur muovendosi il benchmark, restiamo appesi ad esso. Non c'è punto fermo. È una guerra persa, per gli ambiziosi. Il desiderio di arrivare si rovescia in condanna: non esiste arrivo, solo corsa permanente.

Forse il senso non è arrivare, ma riconoscere che si corre. E' decidere come, con chi, e verso dove.

With , Alberto.