C'è stato un momento della mia vita in cui mi sono accorto di non essere né felice né infelice. Semplicemente… ero.
Non esaltato dai momenti belli, né schiacciato da quelli brutti.
E lì ho capito qualcosa: la felicità non è uno stato, è una variazione. È una derivata.
Forse essere felici non significa sentirsi bene, ma sentirsi meglio di prima.
Non conta dove sei. Conta da dove vieni.
Una variazione positiva in uno stato mediocre può darti una gioia improvvisa.
Una condizione perfetta, ma piatta nel tempo, ti lascia vuoto.
Il cervello sembra agire come un operatore differenziale: non misura il benessere assoluto, ma quanto sta cambiando.
Essenzialmente il concetto è questo: se il benessere non cresce, la felicità è 0. Più velocemente cresce, più ci sentiamo felici.
Ma questa equazione è incompleta senza un termine di errore, che dipende dal tempo, dalla nostra storia passata, dal contesto, e onestamente da qualcos'altro che non saprei nemmeno come formalizzare.
Questo termine di errore può essere piccolo o enorme, e a volte è l'unica cosa che resta. Infatti, quando la derivata si annulla – anche se sei "in alto" in termini di benessere – resta solo quel termine di errore a guidare la percezione del benessere.
Essenzialmente, aggiunge complessità. Come se non bastasse quella che c'era già.
È qui che entra in gioco l'adattamento edonico.
La curva si stabilizza in un punto "alto di benessere". La derivata diventa 0. E tu ti chiedi:
"Perché non sento nulla?"
Iniziamo a sentirci vuoti, impazienti, come se mancasse qualcosa.
Anche quando, razionalmente, sappiamo di stare bene.
È questo il cuore dell'adattamento edonico: ci si abitua a tutto, anche alla serenità.
C'è una cosa che ho capito col tempo, e forse è il motivo per cui non riesco mai a godermi davvero un momento bello, almeno non a lungo.
Non viviamo mai solo nel momento presente.
Anche quando tutto è perfetto, c'è una parte della nostra mente che confronta quel momento con ciò che è successo ieri, la settimana scorsa, o tre mesi fa.
E se non c'è un miglioramento percepibile… allora anche il "perfetto" inizia a svuotarsi.
È come se il nostro cervello fosse una macchina che fa la media del passato, una media strana, con qualche peso in più per i momenti più recenti, ma anche qualche peso in più per alcuni periodi particolari.
Un algoritmo implicito, che aggiorna continuamente il nostro stato emotivo.
Dove ogni rappresenta un evento passato, e ogni è il peso che gli diamo.
Se fosse una media semplice, eventi più lontani peserebbero sempre meno. Ma non funziona così.
Perché ci sono periodi – alcuni giorni, alcune estati, certe settimane strane – che restano lì.
Alcuni αᵢ sono enormi. Quella estate di tre anni fa? Quella settimana strana al liceo? Quel pomeriggio che non dovrebbe significare nulla? Hanno coefficienti inspiegabilmente alti.
Altri αᵢ sono quasi zero. Settimane intere della tua vita che pesano meno di un singolo momento.
È come se il cervello avesse un algoritmo di pesatura completamente irrazionale.
E il nostro livello di felicità? Dipende da quanto ci aspettiamo che questo stato migliorerà:
In parole umane: siamo felici quando ci aspettiamo che le cose migliorino, o quando migliorano davvero rispetto al contesto da cui proveniamo.
Ma quei periodi con αᵢ alti... erano davvero così belli?
Voglio dire: quei periodi che ricordo come estremamente piacevoli, produttivi... lo erano davvero?
Se ci ripenso, spesso non me ne rendevo conto mentre li vivevo.
Non dicevo: "questo sarà un momento importante".
Anzi. A volte mi sentivo vuoto anche allora.
Eppure la memoria li ha salvati. Li ha resi qualcosa.
Ha preso una traiettoria ordinaria e l'ha piegata, scolpendola nel tempo.
Perché succede? Non lo so. Ma trovo un piacere enorme nel cercare di capirlo.
Nel costruire domande che non riesco a chiudere.
Nel provare a mettere ordine in una funzione che, forse, non sarà mai derivabile in modo elegante.
Ma la mente ha un trucco. Un hack.
Riflettere.
Osservarsi da fuori.
È come se potessimo uscire dal "grafico della felicità" e guardarlo.
Quando riesci a farlo – e non sempre accade – ti sorprendi a dire:
"Ah, ecco cosa sta succedendo. Il mio cervello sta cercando variazioni che non ci sono. Sta confrontando questo momento con quell'estate del 2019 che ha un coefficiente α assurdamente alto."
Per un attimo, la consapevolezza del processo diventa essa stessa una variazione.
E per qualche secondo – a volte minuti – ti sorprendi a pensare:
"Aspetta... anche se niente sta cambiando davvero, questa calma è bellissima. È quello che volevo."
Il trucco funziona perché introduce una meta-derivata. Ma che c***zo è una meta-derivata, dai...).
Rappresenta la velocità con cui cambia la tua comprensione di te stesso.
Non stai modificando il benessere. Stai modificando la consapevolezza del benessere.
E il cervello, che vive di variazioni, registra questo cambiamento e ti restituisce un momento di pace.
A volte funziona.
Altre volte no.
Perché non basta sapere di stare bene, bisogna sentirlo.
E in quel passaggio – tra la cognizione e la percezione – si gioca tutto: per un momento sei sia il grafico del Benessere, sia chi sta guardando quel grafico.
La stabilità che tanto inseguiamo può diventare una trappola.
Quando le cose si fermano – anche se in alto, anche se giuste – la mente smette di percepirle come speciali.
È come se il cervello aggiornasse il suo sistema operativo:
quello che ieri era un traguardo, oggi è solo il nuovo default.
Si chiama baseline shifting: lo stato di riferimento si sposta continuamente e in silenzio, e il cervello dice:
"Ok, ora questo è normale. Dimmi, cos'altro c'è?"
Lo ricordo benissimo quando ho iniziato in UniCredit.
Ero dentro un palazzo che anni prima fotografavo da fuori, da studente appena arrivato a Milano, come si fotografa un tempio.
"Un giorno lavorerò lì", pensavo.
E quando quel giorno è arrivato, per qualche settimana ho avuto davvero la sensazione di "esserci".
Mi sentivo arrivato.
Ma poi…
Dopo un mese, due… il palazzo era solo un palazzo. L'ingresso, le scale, la scrivania: routine.
E io? Uguale a prima. Solo vestito meglio.
Il valore assoluto della situazione era più che migliorato.
Però... da accelerazione a velocità costante.
"Non è il traguardo che ci fa sentire vivi, ma il movimento verso di esso."
La mente cerca variazioni, non certezze.
Il benessere è interpretato come transizione, non come stato.
E se ti fermi troppo a lungo, anche l'altezza perde significato.
Forse è questo il paradosso dell'ambizione che non conosce pace:
che ogni obiettivo raggiunto diventa immediatamente una nuova base di partenza.
Che ogni sogno realizzato, se non genera un altro sogno, ci lascia lì, nudi davanti alla normalità.
E noi ci sentiamo persi.
Non perché stiamo male, ma perché non stiamo meglio.
Perché tutto ciò che abbiamo ottenuto, che volevamo, che desideravamo… ora è solo il nostro "default".
E il cervello, che vive di , ha smesso di restituirmi emozione.
Il cervello ci frega.
È il nostro sistema operativo, eppure ci mette in trappola. E il punto è che non possiamo disinstallarlo.
Non puoi fare logout da te stesso, puoi solo accorgerti del processo. Osservarlo mentre ti ruba l'entusiasmo.
E magari riderci sopra, accettarlo. O imparare a cercare la bellezza nella calma piatta, anche se la tua testa continua a chiedere onde.
C'è un momento (raro) in cui riesci a uscire dal sistema.
Non controlli . Non azzeri la derivata. Non inganni l'adattamento edonico.
Semplicemente... smetti di aspettarti che il momento presente sia diverso da quello che è.
È successo qualche giorno fa. Ero seduto al bar sotto casa, niente di speciale. Caffè caldo, telefono in mano, rumore di traffico. La giornata uguale a mille altre. Il mio cervello, fedele alla sua programmazione, aveva già iniziato a cercare: "Ok, e ora? Cosa c'è dopo?"
E poi, per qualche secondo, mi sono fermato.
Ho pensato: "Non sta succedendo nulla di straordinario... eppure questo è esattamente dove dovrei essere."
Non era felicità. Era qualcosa di più sottile: presenza.
Il trucco non è convincere il cervello che tutto va bene. È accorgersi che il cervello sta facendo quello che sa fare – confrontare, misurare, cercare variazioni – senza lasciarsi trascinare dal suo verdetto.
È come essere seduti in riva a un fiume. L'acqua scorre, i pensieri scorrono, le aspettative scorrono. Tu rimani lì, a guardare. Senza giudicare la corrente, senza volerla cambiare.
Lì capisci che non dovrai mai risolvere il paradosso dell'adattamento edonico. Non dovrai mai "vincere" contro il tuo sistema operativo emotivo. Dovrai solo, ogni tanto, ricordarti di alzare la testa dalla partita che stai giocando e accorgerti che sei tu a giocarla.
Forse l'unica vera libertà è sapere che non saremo mai liberi del tutto.
Ma che possiamo, ogni tanto, spostarci di lato, e vedere il flusso scorrere senza giudicarlo.
Non essere felici, ma esserci.
With , Alberto.